Che cos’è la cultura in tempo di CoVid?

Il 23 febbraio si sono chiuse le scuole, e con le scuole i laboratori teatrali, musicali e di arte in genere. Si sono chiusi teatri e cinema, si sono bloccati i concerti. Con la chiusura dei teatri stabili, che sono la punta dell’iceberg, ha calato le serrande anche tutto il loro indotto, composto da un vastissimo mondo di lavoratori dello spettacolo, in tutte le loro categorie e sottocategorie.
Il mondo della cultura è rimasto sospeso e impaurito. Cinque lunghi mesi senza introiti e, troppo spesso, senza voce.

Ce l’abbiamo messa tutta

In agosto le porte si sono dischiuse, ma non spalancate, e sono rimaste così fino a settembre, tra mascherine, ingressi contingentati e regolamenti che – dagli addetti ai lavori e dagli spettatori – sono stati seguiti con grande scrupolo. Ci abbiamo messo energia, fiducia, lacrime e sangue. Credo di poter dire, senza timore di smentita alcuna, che gli spettacoli al chiuso e all’aperto sono stati un vero esempio virtuoso per un Paese che non ama le regole. Quindi cinema e teatri sono al di sopra di ogni sospetto relativamente alla diffusione del contagio.
Per sopravvivere, ma anche e soprattutto per non lasciare soli i nostri allievi, molti di noi si sono dedicati alle lezioni online, dopo avere faticosamente appreso le necessarie conoscenze e competenze di carattere operativo. I risultati, però, sono stati deludenti. Abbiamo dovuto accettare con amarezza la scarsa collaborazione dei genitori, che, disposti a pagare senza problemi la quota per le lezioni in teatro, non lo sono altrettanto per le lezioni online, benché queste ultime abbiano richiesto ai docenti il triplo del tempo dedicato alle lezioni in presenza.
A settembre, ancora tramortiti ma fiduciosi, abbiamo cominciato a programmare, a piccoli passi, i laboratori nelle sale teatrali, sempre prestando grande attenzione ai regolamenti. Abbiamo tentato timidamente di dare vita a qualche rassegna teatrale e a qualche concerto, pur sapendo che ci sarebbe voluto un miracolo per chiudere il bilancio in pareggio. Con cautela, ma con grande forza d’animo e con tutto il nostro cuore, abbiamo riconquistato un pubblico altrettanto preoccupato e confuso di quanto lo eravamo noi, ma desideroso di bellezza.
Abbiamo cercato di sopravvivere. Abbiamo preso una piccola boccata d’aria ad agosto, abbiamo sperato di respirare un po’ meglio a settembre. Abbiamo azzardato una programmazione, osando persino pensare in previsione dei piccoli mercatini di Natale dei nostri paesi di provincia, dove tutto è più difficile e faticoso, nulla a che vedere con gli eventi delle grandi città. Abbiamo ipotizzato di allestire, in occasione dei mercatini, piccole performance da tenere all’aperto, con cinque o sei repliche pomeridiane della durata di mezz’ora ciascuna, sufficientemente intervallate per consentire al pubblico di distanziarsi e defluire in sicurezza. Volevamo così dar modo ai bambini di sorridere e di riappropriarsi delle fiabe e dei colori del Natale.

Un colpo al cuore

E ora eccoci qui, di fronte a un DPCM che annulla spettacoli e fa saltare programmazioni. Di nuovo il vuoto, di nuovo la paura, se non la certezza di non potercela più fare, anche perché, se il primo lockdown una spiegazione poteva averla, questo secondo confinamento – anche se per ora parziale – è difficilmente accettabile. Le sue modalità appaiono insondabili. Di nuovo senso di smarrimento e di impotenza. Un colpo al cuore.
La sacralità della cultura è ancora una volta offesa, e ancora una volta senza colpa alcuna dei suoi protagonisti. Noi non siamo untori!
Il poco dignitoso spettacolo che il mondo della politica e delle istituzioni mette in scena, sfornando a getto continuo decreti incomprensibili che si superano l’un l’altro, sta scatenando il furor di popolo. E su questo sfondo inquietante noi addetti ai lavori ci sentiamo ancor più feriti per il fatto che, non essendo noi tra le “industrie” che assicurano cospicui appoggi alle campagne elettorali, non essendo un indotto utile, non veniamo enumerati nelle categorie indispensabili. Persino parte della gente comune, in primis chi ha uno stipendio sicuro, pensa che si possa benissimo fare a meno di noi per qualche mese. “Tanto la musica si ascolta in radio e in cd, tanto il cinema si guarda in tv”, si sente dire. Come se lo spettacolo fosse esclusivo appannaggio del grande cantante o del grande attore, come se dietro la parola cultura non ci fosse un indotto di centinaia di migliaia di persone che lavorano con passione, sudore ed energia sul palco e nel retropalco: tecnici, macchinisti, autori, fonici, light designer, costumisti, scenografi, registi, musicisti, fotografi, produttori, organizzatori.
Ci sentiamo sviliti e avviliti. Ridotti ad essere una industria trasparente senza diritti, neppure quello alla dignità. Siamo accomunati con la movida, e con i bar e fast food che ne rappresentano lo sfondo naturale. Niente da dire con tutti loro. Ma anche niente a che fare. Vogliamo quindi rivendicare a gran voce quello che siamo in realtà: una componente fondamentale del settore che si occupa della “salute”. Sì, proprio della salute.
In questi mesi tutti hanno perso qualcosa e molti hanno perso qualcuno. Ora noi stiamo perdendo noi stessi, la nostra stimabilità di persone dedite alla cultura, all’immaginario collettivo, alla bellezza. Tutto questo senza una ragione precisa. Ma perché un museo può restare aperto e un teatro e un cinema no?

Cura, non contagio!

A questo punto dobbiamo rimettere le cose nel loro giusto ordine. È necessario pensare alla cultura affiancandola alla sanità pubblica, considerandola indispensabile al bene e alla salute mentale collettiva. È una cura che non ha controindicazioni, né bugiardini, né improvvisazioni, ma che può dare risultati ottimi. Possibile che a nessun Ministro venga in mente di volgere il proprio sguardo in una diversa prospettiva e capire che la cultura è essa stessa sanità? Che la cultura è essa stessa una cura dello spirito e che si riflette con grandi benefici anche sul corpo?
Noi – teatranti, musicanti, artisti a vario titolo – siamo parti di una piccola panacea che può combattere la depressione da CoVid. Se non si capisce questo, se non si capisce che i provvedimenti annunciati ci stanno riducendo alla fame, se si pensa che la soluzione sia farci chiudere inviando qualche obolo dove e come capita senza un intervento mirato e capillare, si commette un grave errore e si produce una situazione di indigenza dalla quale moltissimi nel settore non riusciranno a rialzarsi.
La cura che noi prestiamo è una cura fatta di note, di parole, di pensieri, di leggerezza e di profondità, che come acqua pura dissetano la mente delle persone e sono di sollievo e di supporto al sano e all’ammalato. È una cura che sostiene le persone dal punto di vista psicologico, aiutandole a traghettarsi fuori da questa tempo buio, contenendone i danni.
Vorrei chiudere questa dolorosa riflessione con un messaggio diretto ai nostri governanti: non vi rendete conto che, chiudendo cinema, teatri e spazi ibridi a vocazione culturale (indipendentemente dal tipo di attività, dai numeri e dalle risposte), soffocate la speranza, la bellezza, il sogno? Chiudendo i teatri, anche quelli all’aperto, mettete a tacere una voce importante della risposta ai danni prodotti dalla paura del contagio. Perché la cultura è cura e non contagio! Ignorate inoltre che con le vostre disposizioni farete finire sulla strada migliaia di persone, di famiglie?
Eravamo preparati ancora a qualche sacrificio ma non a soccombere. Non uccidete la cultura. Senza di essa, non avrete più vita nemmeno voi.

Nini Giacomelli
CENTRO CULTURALE TEATRO CAMUNO

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